TOKIO HOTEL

Posts written by Majime

  1. .
    Bellissime <3
  2. .
    molto carina *-*
  3. .
    abbandonata? ):
  4. .
    up? ):
  5. .

    Titolo: Ti ricordi di me?
    Autore: Bill Kaulitz
    Raitig: PG-15
    Genere: Romantico, sentimentale
    Avvisi: False TWC not releated, AU, OOC, fluff
    Pairing: BillxTom, TomxBill, AndreasxTom
    Riassunto: Un vecchio mito giapponese dice: se due amanti commettono suicidio, essi si reincarneranno come gemelli.


    Note iniziali: Buon pomeriggio gente (: Grazie mille per i commenti (mi riferisco alle due lettrici) Son contenta che il prologo vi sia piaciuto. Se devo dir la mia, anche a me il prologo è piaciuto molto. Scriverlo mi ha suscitato una serie di emozioni: odio, rabbia, rancore, amore.. mi ha fatto molto piacere scriverlo. Come promesso, vi posto il I capitolo. Buona lettura.

    TI RICORDI DI ME?

    - Capitolo 1 -


    Due anni dopo – 20 Aprile 2008

    Ordinò un drink, il suo solito superalcolico che, ogni volta che lo beveva, lo faceva uscire fuori di testa. Gli bastavano un bicchiere di B52 e due di Angelo azzurro per farlo ubriacare completamente. Presto, sarebbero arrivati anche quelli; tutto dipendeva dall’evolversi della serata. Se fosse stata noiosa, non avrebbe esagerato, ma se avesse preso la piega di sempre, l’avrebbe anche fatto. Una tirata poi, non mancava mai.

    Ogni sera, Tom Trümper, con il suo migliore amico Andreas, usciva per i più lussuosi Night Club di Berlino. Donne, sesso, alcool, era il cocktail perfetto per una serata, come diceva sempre lui, da sballo. Quella sera, a fargli compagnia, erano due gemelline russe, in gita turistica. Offrì loro da bere. Acqua tonica con ghiaccio. Sebbene non capisse assolutamente la loro lingua, bastava sorridere ad entrambe per capire che queste, ben presto, sarebbero finite sul sedile posteriore della sua Cadillac nera. O almeno, era quella la sua intenzione.

    Distolse per qualche minuto lo sguardo dalle ragazze e cominciò a guardarsi intorno. Non era mai stato in quel locale, “Adagio”. Andreas ha buon gusto. Pensò.

    La musica era altissima. C’era un gioco di colori davvero molto bello. Giallo, fucsia, arancio, rosso e blu. I riflettori illuminavano la pista dove tre ragazze stavano ballando su un cubo. Più indietro, invece, una serie di uomini, dai venti ai cinquant’anni, erano presi a fissare - o meglio sbavare - dietro una vetrina larga un metro e mezzo e alta all’incirca due, dove, in ognuna di esse, vi erano giovani ragazze non più di vent’anni. Gli uomini avevano in mano banconote da 20, 50, e 100 euro. I più ricchi, potevano permettersi anche banconote da 200 e 500 euro. Invece, dietro a dei tendoni di velo colorati, vi erano coloro che volevano godersi un ballo privato. Solitamente, erano 20 euro ogni cinque minuti; il prezzo aumentava se poi, oltre al ‘balletto privato’, fosse stato aggiunto anche qualcos’altro.

    Soffermando poi lo sguardo sulla destra, notò una coppia di uomini che stava litigando. Rise leggermente. Accanto a questi c’era una ragazza, intenta a strattonare uno dei due uomini. Molto probabilmente non avranno saputo condividersela. Pensò Tom.

    «Io ci sarei riuscito!» disse ad alta voce, senza nemmeno accorgersene.

    Tornò a fissare le ragazze che, in quel momento, badavano ad altro. Avevano i capelli di un rosso molto acceso, la pelle diafana, liscia come la porcellana. Due grandi occhi verdi e pesantemente truccati di nero, le ciglia erano così voluminose da sembrare un ventaglio. Posò lo sguardo sulle labbra, troppo fini e sottili. Si riusciva ad intravedere leggermente la scia di rosso fuoco che, a quanto pareva, doveva essere il rossetto. Passò al resto del corpo. Magre. Troppo magre. Odio il vestito. Quanti anni potranno avere? Venti? No.. Di più. Me le farei comunque.

    Sorseggiò il suo drink distogliendo lo sguardo dalle due. Si mise alla ricerca di qualche altra preda nel caso in cui quelle due gemelline non fossero state d’accordo nel seguirlo in macchina. Posò il bicchiere sul bancone, lasciando un alone bagnando sotto di esso. Ne aveva versato un po’. Porse nuovamente attenzione sulle ragazze.

    «Voi riuscite a capirmi?» disse scandendo bene il labiale nel vano tentativo di sovrastare l’assordante chiasso che c’era nel locale e, soprattutto, di farsi capire. Tra la musica e il vociare della gente, non si poteva parlare assolutamente. Aggiunse anche i gesti per farsi comprendere meglio. Le ragazze squittirono, guardandosi l’una con l’altra. Una di loro mormorò qualcosa nell’orecchio dell’altra. Dopodiché una di loro parlò a Tom.

    «Вы очень хорошенький»

    Tom strabuzzò gli occhi. Che cosa aveva detto? Lo aveva per caso insultato? Anche se, dalla reazione dell’altra sorella, non si direbbe. Prese a ridere con fare piuttosto da paperella.
    «Cosa? Non ti capisco!» disse Tom, urlando. La ragazza ripeté nuovamente ciò che aveva detto. Tom continuava a non capire. Possibile che siano così idiote da non capire che non conosco la loro lingua del cazzo? «Troia. Non ti capisco!» disse infine, ironico e con un certo ghigno divertito, vedendo che questa continua a ripetere - sempre in russo - la stessa frase nonostante l’avesse pesantemente insultata. Credo che non avremo una discussione.

    «Ha detto che sei molto bello, idiota!» d’un tratto sbucò l’amico da dietro, facendolo sobbalzare. Prese il cocktail di Tom e lo bevve d’un fiato. Quello tecnicamente, doveva essere mio. Pensò Tom.

    «Он идиот. Не понимает!» Disse mentre si allontanava dalle spalle dell’amico per dirigersi verso le ragazze. Si sedette su di uno sgabello accanto. Le russe presero a ridere. Tom non riusciva a capire un fico secco. Cominciò ad irritarsi. Che cazzo gli sta dicendo? Bastardo! Tom strattonò Andreas per la maglietta, tirandolo violentemente verso di sé. Com’era suo solito fare, d’altronde. Che cazzo gli stai dicendo? Perché ridono! Questo prese a ridere a sua volta. Scosse il capo, dicendo che non voleva dirglielo.

    «Dimmelo ora e subito, invece! O dirò ai tuoi che sei gay!» Sebbene il chiasso, Andreas riuscì a capire benissimo. Smise di ridere in un attimo. Non sarebbe mai stato in grado di rivelare il suo segreto ai genitori di lui. Dopo tutto, era l’unico a sapere la verità. Sebbene conoscesse Tom meglio di chiunque altro, era comunque imprevedibile ogni suo comportamento. L’unica cosa di cui era certo, era il suo carattere irascibile e molto vendicativo. Meglio non rischiare. Deglutì.

    «Non c’è bisogno di fare le tue solite minacce del cazzo!» si liberò dalla presa ferrea di Tom con uno strattone. «Gli ho semplicemente detto che non capisci la loro lingua.» e che sei un idiota. Pensò poi. Rise nuovamente al pensiero. Si tradì da solo. Si morse quasi fino a farsi male, il labbro inferiore. Così Tom cominciò a spazientirsi.

    «Anche se sei il mio migliore amico, questo non vuol dire che tu ti debba prendere gioco di me. Te lo puoi scordare. Se ben ricordi. Io so una cosa che nessuno sa. Quindi. Vedi di non fare molto lo stronzetto irritante con me. Che altro hai detto?» Tom gli dette un’‘amichevole’ spinta, facendogli urtare leggermente il busto sul bancone. Adesso era Tom a ridere. Andreas lo fissò con uno sguardo fulmineo. Gli occhi erano ridotti a due fessure, così come la bocca. Con precisione ho detto: è un idiota! Non capisce. Ecco contento adesso?

    Tom annuì molto lentamente. Come per dire: bravo bambino. Lo fissò ancora, dopodiché, entrambi, scoppiarono a ridere. Adesso erano le ragazze a non capire il perché ridessero. Andreas dette una pacca amichevole sulla spazza del rasta, e gli offrì un altro drink. Lo stesso che si era bevuto lui stesso un attimo prima.

    «Come fai a conoscere il russo?»

    «A scuola. Tempo fa. Non lo so alla perfezione. Ma riesco comunque a capirlo.» Andreas era più grande di Tom di tre anni. «Ma adesso. Andiamo Tom, puoi fare di meglio. Queste qui sono pure troppo magre e troppo. Insomma.» le osservava, mentre queste continuavano a ridere con fare da ochette. Alzò le sopracciglia. «Sarò pur sempre gay, è vero. Ma ho comunque buon gusto! Inoltre odio i capelli rossi.» disse Andreas con fare altezzoso. Tom scostò il capo verso destra, in modo tale da poter guardare un’altra volta le ragazze.

    Storse le labbra, giocherellò con il piercing. Stavano parlando fra di loro. Gesticolavano, si aggiustavano quella specie di stoffa che forse, doveva essere il loro vestito. Sì, posso fare di meglio! Senza dubbio. Si alzò dallo sgabello, afferrò il cocktail che gli era appena arrivato e, con la mano libera, salutò in modo del tutto indifferente, le due ragazze.

    «Andiamo a ballare, Tom!» lo prese saldamente dal polso e cominciarono ad addentrarsi nella calca di persone presenti sulla pista da ballo. Tom aveva il braccio destro alzato - era la mano con cui teneva stretto il drink - e muoveva la testa e le spalle a tempo di musica. Aveva stretto il labbro inferiore fra i denti. Molta gente cominciò a spingerlo, a schiacciarlo, involontariamente. Stavano solo ballando.

    «Andy!! Aspetta. Sono rimasto indietro!» urlò, sentendo la presa dell’amico lasciare il suo polso. «Andy!» urlò di nuovo. L’amico, seppure non molto distante da lui, non riuscì a sentire.

    Le casse erano troppo vicine e la suo voce non poteva superare il fracasso che c’era in quel preciso punto. Il braccio era ancora in alto, non riusciva ad abbassarlo. Se l’avesse fatto, di sicuro con gli spintoni, glielo avrebbero rovesciato addosso completamente. Ma che palle! Sbuffò, facendo dietrofront per cercare un tavolino su cui poggiare quel maledetto picchiere. Ma perché me lo sono portato. Non potevo finirlo prima? Quando finalmente dopo svariate gomitate, pestate di piedi e capelli che sbattevano sul suo viso con una velocità supersonica, quasi graffiandolo, riuscì a raggiungere il punto di partenza. Poggiò il bicchiere ormai vuoto sul bancone e si diresse verso l’uscita del locale per fumare una sigaretta.


    Dette due boccate e soffiò via il fumo, formando dei cerchi concentrici perfetti. Aspirò di nuovo. Era poggiato sullo sportello della sua Cadillac. Due buttafuori erano in posizione perfettamente eretta proprio davanti ad essa. Le braccia erano bruscamente incrociate all’altezza dello stomaco. Saranno stati alti un metro e novanta per centotrenta chili di muscoli. Tom si sentì uno scricciolo, sebbene fosse anche lui piuttosto in forma.
    Fece un cenno del capo per salutare quei tizi, apparentemente indifferenti. Diede un’altra boccata. Con l’ultima, tenne più tempo il fumo in bocca, dopodiché lo fece uscire dalle narici. Gettò il mozzicone per terra e lo spense con la punta della scarpa.

    Si poggiò nuovamente di peso sull’auto. Si guardava a destra e a sinistra. Le mani erano in tasca. Sebbene avesse una felpa piuttosto pesante, si strinse nelle spalle. Anche la primavera a Berlino era fredda. A Lipsia era diverso. Lì, in quel paesino, tutto ero più calmo e tranquillo. Nonostante il trasferimento dopo un anno dall’incidente, ricordava piuttosto bene quel posto. Il profumo delle ginestre che fiorivano l’estate, il freddo pungente dell’inverno, i deboli raggi del sole che accarezzavano la pelle in primavera, i colori delle foglie in autunno.

    Si portò una mano dietro il capo, poco più sopra della nuca. La toccò delicatamente. Nonostante i dreadlocks, riusciva a sentire la pelle rialzata della cicatrice. Ricordava il giorno dell’incidente. Come aveva fatto a perdere il controllo in quel modo? Meno male che con me, non c’era nessuno. Pensò poi. Abbassò gli occhi. Si guardò la punta delle scarpe. Erano nere a causa delle pedate che aveva avuto un attimo prima. Alzò nuovamente lo sguardo. Guardava i passanti e, per un momento, si perse nei suoi pensieri, riportando alla mente il giorno in cui tornò a casa per la prima volta dopo l’incidente.

    Due anni prima – 15 dicembre 2006


    Solo una settimana dopo il suo risveglio, Tom poté tornare a casa. E in quella settimana, il ragazzo accanto a lui non si era ancora svegliato. Simone poté togliere di mezzo tutta la roba di Bill, dandola a Jorg. L’unica cosa che non volle dar via, fu l’album di fotografie. Quello non poteva. Dopo tutto. Era una parte della sua vita, un pezzo di sé. L’avrebbe nascosto sotto il materasso della camera da letto. Lì Tom non l’avrebbe mai trovato. Ma se l’avesse fatto. Non avrebbe voluto nemmeno immaginare che cosa sarebbe potuto succedere. Come gliel’avrebbe spiegato? Ma visto che non c’era alcun pericolo che potesse scoprirlo, non si poneva il problema.

    «Vedi Tom, questa era casa tua.» disse la donna, posando il mazzo di chiavi sul comò posto accanto alla porta d’ingresso. Non appena entrò, Tom vide molti scatoloni accatastati l’uno sull’altro e sparpagliati tra l’ingresso, il salotto e la cucina. Si guardò intorno, stralunato. Dobbiamo traslocare?

    «Ecco, lascia perdere il disordine. Siamo in procinto di un trasloco. Domattina presto il camion verrà a prendere la roba. Ce ne andremo a Berlino. »

    «Non ci piaceva stare qui?» passava delicatamente le mani sulle pareti, sui mobili, anche sulle più insulse cianfrusaglie. Sperava in un ricordo, qualsiasi ricordo. Gli sarebbe andato bene tutto … ma non ricordava nulla. O almeno, non tutto: aveva vaghi ricordi, immagini confuse. Cominciò a passeggiare fra gli scatoloni con le mani in tasca. Abbassò lo sguardo e scalciò una carta appallottolata.

    «Ricordi qualcosa?» Simone si sfilò le scarpe bagnate e le lasciò sull’uscio della porta. Tom si voltò verso di lei, guardandola per qualche istante. Scosse il capo. «Tranquillo, tesoro mio. Presto avrai una nuova vita. Non importa se non ricorderai quella precedente. Tanto.» si interruppe. Perse un battito.

    «Tanto cosa?» disse spostando la sua attenzione su un dipinto. Lo fissava attentamente.

    « .. Non c’è nulla di così importante da ricordare… basta che tu ora sia felice.» lo guardava con un po’ d’ansia negli occhi. Quello non era un semplice dipinto. L’aveva fatto Bill. Porca miseria! Avrei dovuto togliere anche quello! In quel momento, stava solo sperando che non notasse un piccolo particolare. Anche se sarebbe stato inevitabile. Doveva fare qualcosa. Lo stava osservando con molta attenzione. I colori, le sfumature, le luci e le ombre, erano tutti perfettamente mescolati, fusi in un'unica cosa. Era un dipinto bellissimo.

    «Chi è l’autore. Bill?» Troppo tardi. Doveva trovare una scusa. Subito. All’istante. Non esitò un attimo. Ebbe subito la risposta pronta. Disse che nemmeno lei lo sapeva. Affermò che quel quadro lo comprarono ad una mostra d’antiquariato. Sebbene il quadro sembrasse tutto meno che antico. Tom fece spallucce e si sedette sul divano.

    «Perché andiamo via da Lipsia? È così tranquillo come posto! Penso che andare in città. Non sia molto favorevole per la mia riabilitazione. Il dottore non ha detto. »

    «Ha detto che bisogna cambiare aria.» bugia. Non aveva mai detto una cosa del genere. «Ha detto che non devi ricordare necessariamente tutto della tua vita passata. Non c’è nulla di importante qui. Nulla.» stava quasi per piangere. Non aveva mai mentito così spudoratamente al figlio. Come poteva dirgli che lì, a Lipsia, c’era suo fratello? E che per riportare alla mente le cose passate avrebbe dovuto completamente stravolgere la sua vita. L’avrebbe fatto nascere una seconda volta. Con la sua mente resettata, avrebbe potuto ficcargli in testa tutto ciò che voleva lei. Non ciò che avrebbe voluto lui. Era inerme, ignaro della vera situazione, succube degli imbrogli dei genitori.

    «Non ho visto un uomo al tuo fianco, Simone. Non ho un padre?» ancora gli sembrava strano chiamare ‘mamma’ una donna che, fino ad una settimana prima, non ricordava di aver mai incontrato. Simone deglutì.

    «Abbiamo divorziato. Quando eri piccolo. Molto piccolo. Non vuole più avere a che fare con noi. Si è trovato un’altra compagna.» bugia. Bugia. Bugia.

    Tom annuì. Aveva lo sguardo basso, i gomiti poggiati sulle ginocchia divaricate. Bene! Non ho un padre. «Fratelli o sorelle? Zii, cugini, nonni…?» Simone deglutì nuovamente. Non si era mai trovata così tanto in difficoltà. Ma era inevitabile che Tom dovesse fare così tante domande. Lei avrebbe dovuto soltanto mentire, mentire e mentire. Se l’avesse portato dagli zii, o dai nonni, di sicuro questi avrebbero chiesto di Bill. E se si fosse ricordato? No. Non poteva succedere. Non di nuovo. Non l’avrebbe sopportato un’altra volta. Dovevano sparire. Letteralmente. Scosse il capo e sorrise tristemente.

    «Sì Tom. Hai degli zii a Chicago. I nonni paterni. Nemmeno loro vogliono avere a che fare con noi. I miei genitori sono morti quando ero piccola.» solo l’ultima affermazione era vera. Il resto, ancora menzogne. «Vuoi vedere il resto della casa?» Tom scosse il capo. Si alzò dicendo che era inutile visto l’imminente trasferimento.

    «Andrò in camera mia. O meglio. In una camera a dormire. Dov’è la mia stanza?»

    Su per le scale e poi l’ultima porta a destra. Annuì, si avvicinò alla guancia della madre e le diede un bacio. «Perdonami se ancora non riesco a chiamarti mamma, Simone.» Accarezzò una guancia del figlio e ricambiò il bacio. Gli occhi erano lucidi. Forse per la stanchezza, o quasi sicuramente. Per il dolore che stava provocando al figlio, pur non sapendolo ancora. Ma sapeva benissimo che, prima o poi, la verità sarebbe venuta a galla. Non poteva nascondersi per il resto della vita. L’avrebbe affrontato un giorno, e una volta fatto sapeva che l’avrebbe perso. E questa volta. Per sempre.

    «Tutto a suo tempo, Tom. Tutto a suo tempo. »

    -

    «Ehi Tom! Ma dove ti eri cacciato?» la voce di Andreas lo fece sobbalzare, portandolo nuovamente alla realtà. «È mezz’ora che ti cerco!»

    Possibile tanto tempo? Andreas era solito ingigantire le cose.

    «Ma sarò stato via massimo dieci minuti. Ho fumato una sigaretta e mi sono soffermato qui. »
    «Al freddo e al gelo come Gesù bambino? Non ti facevo così masochista, Tom.» Il rasta lo guardò con un’aria schifata. Un ragazzo più o meno della sua età, gli stava palpando vogliosamente il sedere. Era alto e di una carnagione molto più scura della sua. Sarà stato ispanico.

    «Vai a fare le tue sozzerie da un’altra parte.» posò il suo sguardo sullo sconosciuto, lo guardò da capo a piedi. Quello non badò a ricambiare lo sguardo, era troppo preso da Andreas.

    «Mi presti l’auto?»

    Cos’è che vuoi tu? La mia bambina non si presta a nessuno! Solo io posso usare i sedili posteriori della mia auto.

    «Tom andiamo. »

    «Andatevene in un Motel o nel bagno della discoteca! Lasciami perdere.» Non dette il tempo all’amico di dire altro. Si scostò dalla portella del passeggero e si diresse verso quella del conducente. L’aprì e mise in moto l’auto. Abbassò il finestrino alla sua destra.

    «Io vado a cercare qualche bella ragazza. Ti accompagna l’amico caramellato a casa?» battuta di cattivo gusto. Andreas annuì scocciato, e l’altro partì.


    Stava girando da quasi dieci minuti. Ascoltava a tutto volume Hamburg di Samy Deluxe. Quella canzone gli dava davvero una grande carica. Era la sua preferita.

    Yeah! Oh... Scheint, ALS hätten die Wichser vergesses, wer wir Sind...
    Aha... Zeit, die Augen wieder in den Norden zu richten! Hamburg!


    Batteva il clacson a ritmo di musica. I finestrini abbassati, il gomito poggiato sulla portiera. Ogni tanto, quando vedeva passare una bella ragazza, suonava più volte il clacson, faceva sorrisi maliziosi od occhiolini. Queste sorridevano, squittivano o, alle volte, sembravano del tutto indifferenti.

    Das IST die Stadt, in der wir leben, Mann,
    Digger, dies IST Hamburg! Hamburg!
    Das IST die Stadt, in der es regnet, Mann,
    Digger, dies IST Hamburg! Hamburg!



    Tamburellava le mani sul volante muovendo a tempo di musica la testa. Si mordeva il labbro inferiore, come per darsi più carica. Continuava a guardare a destra e a sinistra, cercando qualche prostituta che avrebbe potuto portarsi a letto.

    «Bingo!»

    Due donne. Una bionda e l’altra mora. Formose, alte, belle. Avevano davvero l’aria di due che sapevano il fatto loro. D'altronde, cosa c’era d’aspettarsi con due che vendevano il proprio corpo per soldi? Tom accostò. Si soffermò a guardare la bionda. Lo facevano uscire fuori di testa. Perché? Bionde e stupide! Ecco cosa pensava di loro. La classica ragazza che, con una semplice frase, era pronta a darla al primo che capitava. Questo era un caso a parte, però. Lui sarebbe finito in mezzo alle sue gambe anche non dicendo nulla. Non era la prima volta che andava a donne. Forse era già la quinta o la sesta volta. Lo divertiva, lo eccitava. Una volta se ne portò tre insieme, ovviamente, sul sedile posteriore della sua Cadillac. Non avrebbe mai speso del denaro in un Motel da quattro soldi per una prostituta. La sua macchina, la sua bambina, li avrebbe comodamente ospitati sul sedile posteriore. Come sempre.

    «Buonasera!» la bionda si avvicinò. Poggiò i gomiti sulla portiera. Il finestrino era ancora abbassato. «Che bella macchina.» continuò poi. La mora era intenta ad avvicinarsi ad un altro cliente. Ciao bellezza.

    La donna aveva trent’anni, o giù di lì. Portava una minigonna molto striminzita, di pelle rossa; calze a rete nere, scarpe rigorosamente alte color panna - molto probabilmente saranno state un tacco diciotto - e la maglietta, se quella poteva definirsi tale, era di velo e lasciava scoperto tutto il suo prosperoso seno. Era dello stesso colore delle scarpe, così come la camicetta dello stesso colore delle calze. Si chinò a novanta, in modo tale da mettere in mostra il suo décolleté. Tom giocherellò con il piercing.

    «Qual è il tuo prezzo?»

    La donna si portò un dito vicino la bocca. Sei maggiorenne? Tom alzò un sopracciglio. E anche se non lo fossi? Fece spallucce.

    «70€ servizio completo.» Affare fatto. Fece un cenno con il capo di salire in macchina. Quella salì senza esitare. Era stata con tanti, ma tanti uomini. Mai così giovani. La cosa la incuriosiva parecchio. Era lui che doveva provare piacere, non lei. Oramai c’era abituata. Tom partì nuovamente, trovò una via buia dopo circa duecento metri e accostò. La canzone era appena finita.


    Quando tornò a casa erano le tre di notte e Scotty, il suo cane, lo accolse scodinzolando allegramente. Era un tenero cucciolo di bracco tedesco bianco e nero. Aveva poco più di otto mesi. Lo adorava moltissimo. Accese la luce.

    «Ehi campione!» si piegò sulle ginocchia e avvolse fra le mani il piccolo capo del cane. Gli accarezzò le orecchie fragorosamente. Alzò lo sguardo dagli occhi del cane e dette una fugace occhiata in giro. Non c’erano segni di disastri – almeno non grandissimi – né bisognini in giro, solo un cuscino completamente privato delle piume d’oca. La federa rosa pesca giaceva sul divano completamente strappata e un tappeto di piume bianche e grigie era sparso non solo sul divano ma anche per terra, sulla moquette bordeaux. Tom smise di accarezzare il cane e riprese a fissarlo. «Devi solo ringraziare che sei maledettamente tenero. Altrimenti ti avrei schiacciato questa tua bella testolina a mani nude.» Scotti prese a leccarlo, come se quello che aveva appena detto non gli importasse.

    Lo guardò ancora, sorrise involontariamente. Quella sottospecie di cuccioletto a pelo corto era di una dolcezza unica. Ebbe un ricordo di quando il dottore parlò loro della Pet Therapy.

    Cinque mesi prima

    «La Pet Therapy?» Simone non aveva mai sentito parlare di questo tipo di terapia.
    «Sì signora. La Pet Therapy o zooterapia, è una terapia dolce, basata sull’interazione uomo-animale. Si tratta di una terapia che integra, rafforza e coadiuva le tradizionali terapie e può essere impiegata su pazienti affetti da differenti patologie con obiettivi di miglioramento comportamentale, fisico, cognitivo, psicosociale e psicologico-emotivo. »

    Simone scosse il capo. Mio figlio non ha problemi mentali, né tanto meno delle patologie. Ha solo perso la memoria.

    «Questo lo so, signora Trümper. Ed è proprio per questo che io le consiglio questo tipo di terapia. D’altronde, essendo da solo suo figlio ha bisogno di una compagnia… e un cane, un gatto, può senza dubbio aiutarlo a vivere meglio e a ricordare più in fretta. Se il suo animo è tranquillo, grazie all’animale, non avrà incubi sull’incidenti, insonnie, e potrebbe superare questa grave forma di amnesia.»

    Simone annuì, Tom era accanto a lei. Intervenne.

    «Quindi. Posso evitare di prendere le mie piccole o di andare dallo psicologo? Detesto quell’uomo.»

    Il dottor Braun si lasciò scappare una risata. Sì, il dottor Fischer non è molto simpatico. Dopodiché tornò nuovamente serio. «No, Tom. Questo non vuol dire che devi smettere di prendere le pillole o di andare dallo psicologo. Perché la Pet Therapy non è una terapia a sé stante, ma una co-terapia che ne affianca una tradizionale in corso. Lo scopo di questa è quello di facilitare l’approccio medico e terapeutico delle varie figure mediche e riabilitative soprattutto nei casi in cui il paziente non dimostra collaborazione spontanea. La presenza di un animale permette in molti casi di consolidare un rapporto emotivo con il paziente e, tramite questo rapporto, stabilire sia un canale di comunicazione paziente-animale-medico sia stimolare la partecipazione attiva del paziente. E credo che a te ce ne sia davvero bisogno, visto che Fischer continua a dirmi che non ci sono miglioramenti da parte tua. Che non collabori.»
    Tom chinò in capo. Si guardò le punte delle scarpe che da un bianco vivido, erano diventate di un bianco sporco; e la pelle era leggermente consunta. Simone sapeva che non era colpa del figlio se non ricordava nulla. Il dottore si basava esclusivamente su quello che gli diceva lei. Non sapeva niente della sua vera vita. Come poteva ricordarsi di una vita che non aveva mai vissuto? D’altronde, l’unico a sapere la verità era il dottor Frost dell’ospedale di Lipsia. Loro però erano a Berlino adesso.

    «Io provo a ricordarmi, mi sforzo, lo giuro. Ma è come se tutto quello che mamma mi ha detto.» fece una breve pausa, la guardò. Simone gli mise dolcemente una mano sulla spalla, lo tranquillizzò, dicendo che tutto si sarebbe sistemato.

    «Ti ricordi cosa ti dissi due anni fa? Quando ti rimettesti dall’ospedale? »

    Tom sorrise, l’abbracciò con forza. Fece sprofondare il viso nell’incavo della gracile spalla della madre e pianse.

    «Tutto a suo tempo. Tutto a suo tempo. »

    -

    Un rumore proveniente dallo studio di sua madre, lo fece rinvenire.

    «Tom? Sei in casa?»

    No. Sono un ladro che si è volutamente fatto sentire. «Certo mamma! Chi può essere a quest’ora!?» Tom si mise in piedi e andò nello studio di Simone. Era intenta a scrivere, come sempre. Aveva gli occhiali poggiati sul naso, ma non vi guardava attraverso. Era leggermente curva sul monitor del computer per guardare più attentamente la pagina di Word. Stava scrivendo il suo primo romanzo: Wer umrahmt die Professor Schmidt? Che razza di titolo era 'Chi ha incastrato il professor Schmidt?' Più volte Simone aveva proposto al figlio di leggere la trama per sentire cosa ne pensava, ma lui aveva sempre rifiutato. Non si intendeva affatto di scrittura, né tanto meno di libri. Non gli piaceva minimamente leggere.

    Si poggiò sullo stipite della porta, con le braccia incrociate al petto e il piede destro davanti a quello sinistro. «Come mai sei tornato a casa così tardi?»

    «E tu perché sei ancora sveglia a quest’ora?» le rispose di getto Tom. Simone alzò lo sguardo dal monitor. Io lavoro.

    «Sì, e io mi godo la vita mamma. Voglio ricordarti che con me non è stata molto gentile. Non puoi costringermi a tornare a casa alle nove di sera come le galline del pollaio. »

    «Ok, hai ragione. Ma almeno non quando l’indomani hai scuola.»

    Colpito e affondato. Aveva ragione: il giorno dopo aveva scuola. Se n’era del tutto dimenticato. Come può un ragazzo di diciotto anni dimenticarsi che il giorno dopo ha lezione? Per di più, il pomeriggio avrebbe dovuto lavorare a quella fottutissima tavola calda; di nuovo lo straordinario. Quattro ore per soli cento schifosissimi euro in più dalla normale busta paga. Magra, alquanto magra. Ma doveva lavorare se voleva uscire ogni sera e portarsi donne facili a letto.

    «Ci devo andare per forza? Ho un lavoro mamma!» Simone lo fulminò con gli occhi. Gli disse che anche se fosse stato impegnato con il lavoro ogni giorno, doveva trovare tempo per la scuola. Era importante. Avrebbe dovuto almeno diplomarsi. Almeno. Dopo l’incidente, Tom saltò un mese di scuola. Simone lo ritirò dalla scuola a Lipsia, la Mittelschule e lo iscrisse alla Friedrich-Bergius-Oberschule. Adesso si ritrovava a ripetere l’ultimo anno.

    Sbuffò. Scotty abbaiò. Si ricordò del piccolo incidente che aveva combinato quella piccola peste. Meglio pulire in fretta, prima che mamma se ne accorga.


    Accese il computer: non aveva alcuna intenzione di dormire. Se l’avesse fatto, di sicuro non si sarebbe svegliato alle sette. La mattina dopo si sarebbe bevuto come minimo due tazze di caffelatte con i biscotti. Avrebbe cominciato alla grande la giornata.

    Il monitor, con la sua luce azzurra intensa, illuminava la gran parte della stanza. Scotty era sul letto a dormire. Entrò su Facebook. 5 richieste, 35 notifiche. Accettò solo le amicizie. Andreas è online. Non mi va di contattarlo.

    Cazzeggiò un’ora, non di più. Gli occhi cominciarono a bruciargli e a farsi sempre più pesanti, fece due, o forse anche tre sbadigli di seguito. Il sonno stava cominciando ad impossessarsi di lui. Avrebbe fatto meglio a dormire. L’indomani la giornata sarebbe stata alquanto faticosa e lui, avrebbe dormito poco meno di tre ore.

    ---Note Finali: ecco qui il primo capitolo (: Cosa ne pensate? Devo dire che, in questa FF, ho odiato all'inverosimile Simone. Fa la parte della madre stronza. Non trovate? Aspetto commenti (: Un bacio, Vale.
  6. .
    CITAZIONE (Sweet Sterne @ 16/7/2013, 08:03) 
    Interessate come storia,anche se è solo il primo capitolo scusa ma ti devo proprio dire che Simone è una stronza, ma dico io come fa a non dire al figlio appena uscito dal coma che quello che è accanto a lui non è il fratello ma n estraneo.
    Per il resto però la storia mi intriga molto posta presto il seguito XD

    oww un commentino ahah (: beh.. non voglio aggiungere nulla.. ma la storia non esisterebbe se non avessi fatto tutto così (;

    domani, massimo, settimana prossima, avrete il chap.
  7. .
    up ? c.c
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    a me i miei se ne sono accordi dopo due mesi.. perché avevo ancora l'asticella lunghissima.. l'ho tolto.. e ho messo quello trasparente (: è bellissimo anche così.. più della barretta di metallo perché è anche più fine e soprattutto più igienico.. perché è in plastica.. e non ti rovina i denti.
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    Titolo: Ti ricordi di me?
    Autore: Bill Kaulitz
    Raitig: PG-15
    Genere: Romantico, sentimentale
    Avvisi: False TWC not releated, AU, OOC, fluff
    Pairing: BillxTom, TomxBill, AndreasxTom
    Riassunto: Un vecchio mito giapponese dice: se due amanti commettono suicidio, essi si reincarneranno come gemelli.


    Note iniziali: Salve gente (: Prima di cominciare a postare, voglio informarvi che, dopo un anno, finalmente, questa FF è finita. C'ho messo l'anima per scriverla e, a parer mio, l'ho adorata sin dal primo momento che ho aperto il foglio word ed ho cominciato a scrivere. Visto che è terminata, non ci saranno problemi nel postare.. avrete un capitolo minimo ogni tre giorni e massimo una settimana, tutto dipende dal tempo che ho a disposizione (: Detto questo, spero che la FF vi piaccia così come è piaciuta a me. Un bacio. Vale.

    TI RICORDI DI ME?



    - Prologo -


    8 Novembre 2006

    «Siete solo degli egoisti. Degli schifosissimi egoisti del cazzo!» strinse forte i pugni, conficcandosi le unghie nei palmi delle mani; li sbatté più volte sul muro.

    «Egoisti bastardi!» ripeté ancora, spostando poi la sua rabbia sul tavolino del salotto, accanto al divano. Si sentì un forte tonfo per tutta la stanza. Gli oggetti in ceramica che vi erano sopra tremarono; alcuni caddero a terra e si ruppero. Nessuno osò fiatare. Una volta scaricata la rabbia sul tavolino, si portò i pugni vicino la bocca, si picchiò sulla testa, strizzando forte gli occhi per trattenere le lacrime. Senza riuscirci.

    «Non potete farci questo. Non potete farlo!» ormai le lacrime cominciarono ad uscire. Non era più capace di finire le frasi perché interrotte da profondi singhiozzi. Il viso era già completamente bagnato.

    «È perché ci amiamo in modo diverso, vero? È per quello, giusto?» gli occhi del padre erano bassi, la madre sussultava ad ogni frase, ad ogni parola ‘pungente’ del figlio.

    Era davvero per quello? Perché loro due si amavano? Dopo tutto. Non l’avevano mai accettato. Né Jorg, né lei. Ma come avrebbe potuto dirlo.

    «Rispondimi, cazzo!» Tom afferrò il padre dal colletto della camicia e lo spinse contro il muro. Lo sollevò leggermente da terra. Bill, in piedi dietro Tom, si strinse fra le braccia, gridò per lo spavento. Strinse forte gli occhi, si mise le mani sulle orecchie. È un incubo. È solo un maledettissimo incubo.

    «Tom, per favore. Lascialo! Ti prego!» Simone si precipitò verso di lui, prendendo Tom per le spalle e tirandogli leggermente la maglietta per fargli mollare la presa. Fu inutile. Strinse più forte.

    «Non ti è mai importato un cazzo di noi. E adesso vuoi che Bill venga con te? Non sei nessuno per deciderlo.» ringhiò a pochi centimetri dal volto del padre. «Fattene una ragione. Sei una nullità.» soffiò infine, lasciando la presa con un forte strattone. Cadde a terra.

    «Tu non hai il diritto di trattarmi in questo modo. Sono pur sempre tuo padre.» Jorg cercò di rialzarsi. Si sistemò il colletto della camicia, inserendovi all’interno l’indice, poi il medio. Lo allargò leggermente … in quel momento, gli stava troppo stretto. Tom lo ignorò completamente. Si avvicinò a suo fratello ancora con gli occhi chiusi e le mani sulle orecchie, gli afferrò delicatamente i polsi, portandogli le braccia lungo i fianchi. Con il pollice e l’indice gli sollevò il mento. Bill aprì leggermente gli occhi gonfi, rossi e ancora pieni di lacrime. Non si era truccato quel giorno anzi, non lo faceva da molto tempo ormai. Tom poté vedere meglio quanto dolore gli stava provocando quella situazione, quanto dolore quel grandissimo bastardo gli stava recando, quanta disperazione gli stava causando l’intera indifferenza da parte della madre. Non va affatto bene così. Per niente.

    Non mi lasciare. Mimò Bill con le labbra, stringendole forte successivamente. Una lacrima gli rigò lo zigomo destro, altre due quello sinistro.

    «Non lo farò mai.» sorrise poi, dandogli un bacio sulla fronte. Era sudata, seppure il freddo era pungente. Fuori diluviava. Gli scostò qualche ciocca di capelli e gliela mise dolcemente dietro l’orecchio.

    «Gli egoisti siete voi. Come potete comportarvi in questo modo? Non è una cosa normale. Siete la vergogna della nostra famiglia.» ringhiò Jorg. Simone lo rimproverò di fare silenzio. Tom indurì la mascella, Bill socchiuse gli occhi e sospirò. Non avrebbe dovuto dire una cosa del genere. Che idiota! Tom lasciò delicatamente il mento del fratello. Ti amo. Gli sussurrò in seguito, prima di scagliarsi contro il padre. Con uno spintone si ritrovò su di lui, cominciò a colpirlo sul viso, sullo stomaco. Era invano proteggersi. Simone provò ad allontanarlo, strattonandolo per la maglietta. Non ci fu verso di smuoverlo. Le sue gambe erano arpionate perfettamente agli esili fianchi di Jorg. Gli bastò un colpo di spalla per far allontanare la madre, facendola finire per terra. Bill si mise le mani tra i capelli. Basta!

    «A cosa pensi che mi siano servite le lezioni di pugilato? Eh? A cosa pensi che mi siano servite?» un pugno sullo stomaco. «Dicevi che stavo perdendo il mio tempo. Che dovevo dedicarmi allo studio. Sapevi almeno per chi lo stavo facendo?» un pugno sul viso. Jorg era sanguinante. Non rispose. Guardava dritto negli occhi il figlio. Quel figlio che lo stava picchiando.

    «Rispondimi, animale!» un altro pugno. Simone si arrese. Si mise in ginocchio e cominciò a piangere. Jorg lo fissò qualche altro secondo, prima di rispondere sputò sulla maglia del figlio sporcandola di sangue.

    «Io non voglio avere un figlio finocchio.» sputò ancora. Ricevette un altro pugno, questa volta dritto sul naso. Jorg urlò dal dolore: glielo aveva rotto.

    «Esatto! È proprio per questo motivo che ho preso lezioni di box. Per picchiare gli animali come te.» si alzò di scatto, gli tirò un calcio nei fianchi, facendolo contorcere dal dolore. Con le mani si copriva il setto nasale dolorante e sanguinante. Bastardo me l’hai rotto. Mugugnò Jorg. Devi solo ringraziare che non ti abbia ucciso davanti a mamma e Bill. Schifoso omofobo. Ricambiò lo sputo. Era la cosa più umiliante che potesse esistere. Picchiati, insultati, sputati dal proprio figlio.

    Era quello che si meritava.

    Fissò qualche altro secondo il padre ancora disteso, dopodiché guardò la madre. Era ancora in ginocchio e piangeva. Nei suoi occhi, Tom poté intravedere tanta disperazione, delusione, umiliazione. Non l’avrebbe voluta vedere così. Guardò Bill, ora seduto sul divano con la testa fra le mani. Singhiozzava: lo capì dai rapidi movimenti su e giù che faceva la schiena. Si passò una mano sul viso, poi fra i rasta ormai sciolti e scompigliati.

    «Non doveva dire una cosa del genere, mamma. Non doveva farlo.» cominciò «Non avete idea di quello che abbiamo passato. A scuola, qui, fra di noi. Non è colpa nostra se.» dette una fugace occhiata a Bill, per cercare appoggio. Lo trovò. Come sempre.

    «Potete anche non accettarlo. Io. Noi.» Lo guardò a sua volta. Sorrise a quella parola. ‘Noi’ sembrava così familiare. Come se fosse sempre esistita. «Non possiamo farci niente. Ci amiamo. E va bene così.» si asciugò una lacrima con due dita. Simone restò impassibile a tutte quelle parole. Bisogna chiamare il pronto soccorso. Jorg morirà dissanguato altrimenti. Disse, cambiando discorso. Si alzò e si avvicinò al marito o meglio. Sarebbe stato l’ex marito dopo l’udienza. Gli accarezzò i capelli. Il giudice aveva già deciso che Tom sarebbe rimasto con la madre e Bill sarebbe stato affidato a Jorg. Entrambi potevano vedersi nel fine settimana. Non di più, non di meno. Prese il cordless.

    Compose il numero. Risposero al terzo squillo.

    Pronto soccorso!

    «C’è un emergenza al 57° Stadtteile, Leipziger Straßen c’è stato un incidente. Mio marito si è rotto il setto nasale in una rissa. Fate in fretta per favore.»

    Le manderemo subito un’ambulanza.

    Cosa avrebbe detto non appena sarebbe arrivata l’ambulanza? Non avrebbe mai detto che il padre era stato picchiato dal figlio. Avrebbe inventato una scusa. Mio marito è tornato barcollando qui a casa. Ho chiamo subito il pronto soccorso. Sì, sarebbe stata una scusa perfetta. Se avesse detto la verità, avrebbero chiuso in riformatorio suo figlio… e lei sarebbe rimasta da sola. Completamente. Per non parlare di Bill. Non l’avrebbe mai più voluta vedere. Dopotutto, erano pur sempre i suoi figli.

    «Perché hai mentito?» Jorg cercò di alzarsi in piedi. Si appoggiò con la schiena sullo stipite della porta del salotto. Aveva trovato un tampone per il naso. Almeno quello.

    «Non voglio che Tom vada in riformatorio. E non voglio che Bill non mi rivolga più la parola. E non voglio rimanere da sola. Sono pur sempre i miei figli. Li vorrò bene per il resto dei miei giorni. Qualsiasi scelta loro facciano.» Simone li guardò entrambi. Seppure tristemente, abbozzò un sorriso forzato. Non accetterò mai questa cosa. Mai. Pensò tra sé e sé. È sbagliato. Non è un bene per loro. Ma se sono felici. Va bene così.

    Tom guardò la madre, poi guardò Bill. Si avvicinò e si piegò davanti a lui, poggiando le mani sulle sue ginocchia. Si perse in quelli occhi nocciola così profondi. Per un attimo ricordò la prima volta che, vedendoli, aveva sentito le farfalle allo stomaco. Lo stava guardando così, proprio come all’ora.

    Tre anni prima

    «Tom! Tom ti prego vieni!» il moro gemette leggermente nel chiamarlo. Il fratello si precipitò subito nel cortile, da dove proveniva la sua voce. Cosa c’è?

    «Sono caduto su quella maledetta pietra. Mi sono sbucciato un ginocchio. Brucia. »

    Tom sorrise: il fratello era davvero un imbranato certe volte. Lo tranquillizzò accarezzandogli il ginocchio non sbucciato.

    «Vedi che è l’altro che mi fa male.» Rise poi. Tom annuì. Lo sapeva… semplicemente non voleva che sentisse bruciore se l’avesse toccato.

    «Ti porto in cucina e lo disinfettiamo. Hm?» scosse rapidamente il capo.

    Fa troppo male. Non riesco a muoverlo. Non camminerò più. Tom rise di gusto. Era di una tenerezza immensa quando si preoccupava per queste stupidaggini.

    «Ok. Vorrà dire che porterò qui fuori la garza e lo spirito per…»

    «Lo spirito? Che sei pazzo? Mi vuoi scorticare la pelle per far uscire l’osso del ginocchio da fuori? Non se ne parla proprio. Prendi il ghiaccio secco dal congelatore.» Tom rise ancora. Sì certo. Forse nemmeno l’acido muriatico avrebbe questi effetti collaterali. Pensò poi tra sé e sé. Ma così fece. Si dette una spinta con il ginocchio per rialzarsi e si diresse in cucina per prendere una garza e del ghiaccio.


    «Ahia! Brucia da morire.» gemette Bill, strizzando forte gli occhi e gettando il capo all’indietro, stringendo con entrambe le mani il ginocchio ferito.

    «Sei stato tu a dirmi di prendere del ghiaccio secco. »

    «Ma non pensavo facesse così fottutamente male. Guarda qua!!» indicò il ginocchio con lo sguardo e lo indicò con entrambe le mani. «La garza e la pelle sono diventati un tutt’uno. Si è appiccicato tutto! Che tre quarti di palle!» Tom strabuzzò gli occhi. Bill si preoccupò. Cominciò a squadrarsi il ginocchio, girandolo a destra e a sinistra.

    «Cosa c’è? È grave? Morirò? Dov’è l’emorragia?» Tom rise di gusto. «Ma cosa minchia ridi? Ma non vedi che sto per morire dissanguato?» Indicò nuovamente con entrambe le mani la garza appena macchiata di sangue. Tom corrugò la fronte e successivamente alzò le sopracciglia.
    «Non morirò… vero?» Bill lo guardò con gli occhi lucidi. Si morse ripetutamente il labbro inferiore, quasi torturandolo. Tom sorrise debolmente. Avvicinò le labbra al ginocchio ‘ferito’ e gli diede un bacio. Così guarirà più in fretta. Aggiunse.

    «Grazie.» i suoi occhi si riempirono di speranza mentre guardavano intensamente Tom. Lui fece lo stesso. E quando Bill li chiuse e li riaprì lentamente, sentì il suo cuore fare un tuffo carpiato e il suo stomaco riempirsi di formicolii improvvisi. Non ricordo di aver mangiato farfalle a merenda.

    -

    Cercò di trovare una soluzione, in quegli occhi; un qualcosa che gli permettessero di fare la mossa finale. Sarebbe stato disposto a tutto, pur di salvarlo. Bill lo fissò intensamente…e bastò un suo sorriso per far capire a Tom quale sarebbe stata la scelta più giusta. «Ti fidi di me?» sussurrò poi, cercando consenso. Dal canto suo, Bill, aveva già capito qual era la sua intenzione. Anche lui era pronto a tutto. Si fidava ciecamente di lui. Perdutamente. L’aveva sempre fatto, fin da bambino. Non avrebbe smesso proprio ora che lui era diventato ancora più importante di quanto già non lo fosse. Con lui si sentiva protetto, al sicuro, nessuno gli avrebbe mai fatto del male ora che Tom era lì, accanto a lui. Gli poggiò le mani sulle spalle, si avvicinò giusto il necessario per poggiare la fronte sulla sua. Gli cinse il collo e sorrise, guardandolo dritto negli occhi.

    «Questo è un sì, vero?» rise poi, avvolgendogli il volto e baciandolo delicatamente, fregandosene altamente della reazione che avrebbero avuto i genitori. «Quindi saresti disposto a fuggire con me? Adesso?» non se lo fece ripetere due volte, senza accorgersene si ritrovò ad annuire ripetutamente. ‘Sì! Sì! Sì! ’

    Si alzò, prendendo delicatamente la mano del fratello. Era così fredda e magra…

    «Che vi piaccia o no ce ne andremo. Questa sera, adesso!» Simone scattò in piedi, Jorg indurì la mascella. Ancora il naso era dolorante. L’ambulanza non era arrivata. Tentò di far cambiare idea al figlio, dicendogli che avrebbero trovato insieme una soluzione. Tom scosse il capo, più volte. Nulla potrà farmi cambiare idea.

    «Nemmeno se andassi a dire al giudice che siete due che praticano l’incesto? Sai benissimo che sono capace di farlo, Tom! E se il giudice dovesse venire a sapere questa cosa, sta pur certo che Bill non lo rivedrai mai più. Perché entrambi verreste rinchiusi in qualche ospedale psichiatrico per il resto dei vostri giorni.» Simone lo guardò con gli occhi sbarrati e la bocca semi schiusa. Non farebbe mai una cosa del genere. Pensò poi. Ma sapeva benissimo che ne sarebbe stato capace, pur di vendicarsi.

    Tom rimase impassibile, freddo, immobile, nella stessa posizione in cui era pochi attimi prima che Jorg lo avvertisse. Fece un’espressione di disgusto, guardandolo dalla testa ai piedi. La mano stringeva sempre quella di Bill, ora più forte. «Ed è per questo motivo che togliamo il disturbo. Fa quello che cazzo ti pare. Mandaci tutti gli esorcisti e gli strizzacervelli che vuoi. Io, a differenza tua.» disse prima indicandosi, per poi rivolgere l’indice verso il padre, con fare minaccioso. «Ci tengo a lui, lo amo, e non mi vergogno assolutamente di questa scelta che ho fatto nella mia vita. Siete solo degli egoisti. Tu in primis. Non siete stati mai orgogliosi di noi, nemmeno prima di scoprire la relazione fra me e lui. Addio!» non aggiunse altro. Non prese né valige, né vestiti, né soldi, né cellulare. Niente. Aprì la porta. Era sull’uscio. Jorg afferrò per il braccio Bill stringendolo forte e guardandolo con aria minacciosa. Bill era terrorizzato. Strinse ancora di più la mano del fratello.

    «Sappi che se varcherete quella soglia, non vi considereremo più nostri figli.» ringhiò Jorg, stringendo ancora di più la presa. Tom lo allontanò con una forte spinta sulla spalla. Il padre era piuttosto magro ed esile. Non ci volle molto per farlo.

    «E sappi che se lo toccherai ancora una volta, non ti considererai più un uomo vivo.» lo minacciò, puntandogli contro il dito. Senza aggiungere altro prese le chiavi dell’auto senza farsene accorgere e chiuse di scatto la porta.

    «Ti prego, Tom! Aspetta!» Simone si avvicinò alla porta, per aprirla, ma Jorg si piazzò davanti ad essa. Lasciali andare. Non andranno molto lontano con questo tempo. Li cercheremo domattina.


    «Fottuta macchina del cazzo! Parti maledizione. Parti!» Tom girò con più forza la chiave all’interno dell’auto di Jorg. Una Mercedes un po’ troppo vecchia. Due, tre, quattro volte. La macchina non partiva.

    «Ti prego Tom, portami via.» Bill guardò fuori dal finestrino. I capelli gli gocciolavano seppure fossero stati pochi attimi fuori. Tremava dal freddo; era vestito troppo leggero. Era bagnato fradicio e non aveva nemmeno una giacca. Tom non disse niente, continuava a spingere con forza la frizione e a girare la chiave. Dopo uno scoppio del motore e una nube di fumo nero uscita dalla marmitta, la macchina partì. Bene, un faro non funziona. E l’altro? Sembra una lucetta dei morti.


    «Tom, Tom non correre così tanto.» Bill si allacciò più veloce che poté la cintura. Dette una rapida occhiata al quadro di comando dell’auto, soffermandosi sulla lancetta dei km/h. Segnava 140. Ripeté di nuovo di moderare la velocità, era pericoloso con il temporale. 150. Cominciò ad agitarsi. Spinse forte la schiena contro il sedile, aggrappandosi con le unghie sulla fodera di quest’ultimo. 180.

    «Tom, ti prego. Mi stai facendo paura così. Fermati!» urlò, in preda al panico. Spinse le ginocchia al petto e le avvolse fra le braccia. Il viso sprofondò fra le gambe. Frenò, lasciandosi dietro uno stridere di pneumatici quasi assordante a contatto con l’asfalto bagnato.

    Si voltò verso di lui. Notò che stava tremando. Forse dal freddo. Che idiota! Certo che è per il freddo! Non ho preso nessun cappotto. O forse, anche per lo spavento. Doppio idiota. A momenti finivo per ammazzarlo. Allungò una mano per toccargli la spalla, ma la ritrasse subito dopo. Urlò, picchiando più volte le mani sul volante, facendo tremare l’automobile. Lasciò cadere la fronte sullo sterzo, le braccia erano poggiate su di esso prive di forza. Scoppiò a piangere.

    «Mi dispiace! Mi dispiace! Mi dispiace!» continuava a ripetere, scuotendo a destra e a sinistra la testa, sbattendola volutamente sul volante. «Sono un’idiota. Solo un povero idiota. Non volevo spaventarti. Scusami. Scusami!» improvvisamente si lanciò sul fratello, poggiando il viso sulle sue ginocchia. Lo strinse forte. La schiena si alzava e abbassava velocemente. Sudava, sebbene facesse freddo.

    Bill dal canto suo, alzò leggermente la testa e abbassò le ginocchia, in modo tale che Tom potesse poggiare il viso sulle cosce. Cominciò ad accarezzargli un rasta per volta, poi gli sfiorò la schiena. «Nessuno mai avrebbe fatto questo per me. Mai.» sussurrò poi, abbassandosi su di lui e poggiando il viso sulla schiena. «Ti amo, Tom. Ti amo tanto.»

    Restarono così qualche altro istante, dopodiché Tom si alzò leggermente e si asciugò le lacrime dal viso. «Che cazzone che sono. Sei fradicio, scricciolo.» Sorrise poi, scompigliando i capelli bagnati del fratello, sfregando poi le sue mani sulle braccia per riscaldarlo. Quest’ultimo lo guardò divertito. «Ma lo sai qual è la cosa più assurda, Bill?» Scosse il capo, assottigliò le labbra. No. «E che non so nemmeno dove andare, questa notte.» accarezzò una sua guancia. «Dove vuoi andare? »

    «Per me potremmo anche andare a vivere sotto i ponti, a dormire sui cartoni, andare a mangiare alla mensa dei poveri. Nulla conta, finché noi due resteremo insieme. Se a te va bene, certo.» sovrappose la sua mano a quella di Tom, rimasta ancora sulla sua guancia. Si guardarono intensamente. Poterono vedere quanto amore c’era l’uno negli occhi dell’altro. Si vedeva lontano un miglio che, entrambi, avrebbero fatto qualunque cosa pur di salvarlo. Giusto, sbagliato, che importava? Che significato poteva avere la parola sbagliato per loro? Sbagliato poteva essere una madre che abbandona il figlio in un orfanotrofio; sbagliato poteva essere chi uccideva un innocente; sbagliato poteva essere chi rubava, ma non chi amava qualcuno. Da quando in qua amare una persona è sbagliato? Perché è sbagliato? È vero, per legge non si può amare un fratello; non in quel modo. Non si deve fare. Perché per loro, quello è sbagliare. No! Non era affatto così. Quello si chiamava semplicemente eccezione; loro erano l’eccezione. Erano diversi dagli altri. Si distinguevano dalle semplici coppie di persone che, secondo loro, credevano di amarsi. Ma forse, non conoscevano nemmeno il significato della parole amore. A loro bastava guardarsi negli occhi per capire cosa provava l’uno per l’altro; bastava sorridere. La gente non capiva. E non l’avrebbe mai fatto.

    «Finché ci sarai tu con me, non importa se sarò all’inferno, o nella reggia più bella di tutto il mondo. Perché il mio posto, il posto più bello che abbia mai visitato, in cui abbia mai vissuto. Sei tu.» un altro sorriso, un altro triste sorriso.

    Bill lo guardò, ancora un istante. Improvvisamente però, venne illuminato da un forte faro. Quasi accecante. Era vicino, sempre più vicino. Solo quando divenne troppo tardi, Tom mise a fuoco che quelli, erano due fari di un camion fuori controllo che li stava venendo addosso. Non si accorse di nulla. Sentì soltanto suo fratello urlare il suo nome.

    Tom!


    ‘Il dottor Müller in terapia intensiva, il dottor Müller in terapia intensiva, il dottor Müller è richiesto in terapia intensiva. ’


    «Vuole chiudere quella boccaccia!? L’ha ripetuto dieci volte. La smetta!» Simone, in preda ad una crisi di nervi, stava aspettando in sala d’attesa. Non per Jorg; lui era già stato curato. Attendeva insieme a lei. L’infermiera la guardò con gli occhi spalancati, restando qualche altro attimo con la bocca vicino il microfono, dopodiché si ritirò e cominciò a ri-picchiettare sulla tastiera del computer. Il dottor Frost uscì dalla sala operatoria, dopo tre lunghe ore.
    «Come stanno?» chiese ansimante la madre, scattando in piedi come se qualcuno le avesse dato la carica. Il dottore scosse il capo. «O mio dio! Sono morti! O mio dio!» Simone si gettò fra le braccia di Jorg, che la strinse istintivamente.

    «Oh no signora Aulita, stia tranquilla. È solo come temevo. Sono. Sono entrati entrambi in coma. Hanno sbattuto troppo forte la testa. Temo abbiano subito un trauma cranico e, per cucire le ferite, ci son voluti molti punti di sutura. Ora sembrano stabili. Non so quanto possa durare il coma. Ma temo che.» fece una pausa.

    «Temo che? Che cosa teme, dottore?» chiese Jorg, preoccupato.

    «Dalle notevoli esperienze che ho avuto, temo che al loro risveglio non ricorderanno nulla. Non dell’incidente. Perché molto probabilmente l’incidente, la maggior parte delle volte, lo ricordano tutti; parlavo della loro vita. Dubito persino che si ricorderanno il loro nome. Non credo vi riconosceranno, né tanto meno si ricorderanno l’uno dell’altro. Ma questo è tutto da vedere, con il tempo, la memoria potrebbe tornar loro. C’è una buona probabilità. Circa il 70% dei pazienti, dopo un certo periodo di tempo, ricorda tutto. Spero che i vostri figli rientrino in quel 70%. Ora se mi volete scusare…»

    Il medico con un cenno del capo tolse il disturbo. I genitori dei gemelli si guardarono intensamente. Bastò un semplice cenno di assenso da parte di Jorg. «Sì, Simone. Sarebbe la cosa più giusta da fare. Se davvero al loro risveglio non dovessero ricordarsi né di noi né gli uni degli altri, faremo così. »

    Un mese dopo

    «Pronto?»

    Signora Kaulitz? Sono il dottor. Frost. Suo figlio, Thomas, si è appena svegliato dal coma. Suo figlio, Wilhelm, ancora no. Ma le sue condizioni, sono comunque stabili ed è migliorato.

    «O mio dio! Arrivo subito.»

    A signora, dimenticavo una cosa.

    «Mi dica! »

    Ha chiesto del ragazzo che stava con lui in macchina. Non ricorda il suo nome. Né chi fosse. Come temevo, non sa che con lui, c’era suo fratello. Non ho detto nulla, nemmeno qual è il suo nome. Ho soltanto controllato i valori e me ne sono andato. Ho pensato che sarebbe stato meglio se gli aveste parlato voi per primi.

    «La ringrazio! »

    Terminò la chiamata senza salutare nemmeno il dottore. Era così entusiasta che dopo un mese suo figlio si era risvegliato… Ma, in un certo senso, era anche preoccupata ed ansiosa. Se davvero non si fosse ricordato nulla, avrebbe fatto finta che Bill fosse morto. O mai esistito… lo avrebbe fatto davvero? Sì. Per il bene del figlio. Dei figli. Sì. Così Bill sarebbe stato affidato a Jorg. Ma il problema. Era che non avrebbe più potuto vederlo, almeno, non assieme a Tom. Se si fosse ricordato di lui, tutto sarebbe andato a rotoli. No. Non doveva capitare. Non di nuovo. Era sicura che quello che stava facendo, era la cosa giusta. Secondo lei. Secondo Jorg.


    «Venite signori, entrate pure. È sveglio.» il dottore si fece da parte e lasciò aperta la porta in modo tale che i genitori potessero entrare nella stanza. Non appena entrarono, Simone mise le mani sul petto dell’ex marito, dicendogli di far finta di non conoscerlo. Lui annuì. C’era un triste silenzio. Si sentiva solo il leggero vociare di fuori e i ‘bip’ della macchina accanto a Tom. I suoi battiti erano regolari. Simone vedeva la barra verde dell’elettrocardiogramma alzarsi ed abbassarsi. Se avessero attaccato a lei un simile macchinario, di sicuro i battiti non sarebbero oscillati tra i sessanta e i settanta. Sarebbero stati molto più elevati.

    Inspirò ed espirò profondamente. Le tremavano le mani e le ginocchia. Jorg guardò prima Tom. Per fortuna, - secondo lui - non se ne accorse neppure. Spostò il suo sguardo verso Bill, ancora incubato. Gli venne un nodo alla gola che non riusciva a deglutire. Aveva un piccolo tubo di plastica trasparente che gli entrava da entrambe le narici. Deve essere il respiratore. Si sentiva in colpa, tremendamente. Se non fosse stato per il pessimo carattere che aveva, a quest’ora i figli non sarebbero in ospedale. Simone si avvicinò piano al lettino dove Tom era disteso. Si guardava intorno, senza parlare. Simone sorrise, Tom la ignorò. Chi è?

    «Tom?» lo chiamò, accarezzandogli leggermente la fronte. Tom la guardò stralunato. Non mi riconosce? Pensò tra sé e sé. «Tom, sono la mamma.» Tom continuava a non rispondere. Aveva gli occhi semi chiusi: la luce bianca della lampada posta dietro il suo lettino lo accecava. Si mise una mano sulla fronte per poter far ombra sugli occhi e vedere meglio quella sagoma davanti a lui. Vedeva ancora sfuocato per via degli antidolorifici che gli erano stati somministrati. Forse era anche dovuto al fatto che, la garza che gli avvolgeva gran parte della testa, era maledettamente stretta. E si sentiva soffocare, schiacciare, premere con forza. Gli batteva, gli doleva da morire. Era come se un martello pneumatico gli stesse martellando violentemente sulle tempie, non lasciandolo in pace nemmeno per un secondo. Persino gli antidolorifici non riuscivano a calmare del tutto il dolore.

    «È questo il mio nome? Tom?» bisbiglio leggermente. Simone ebbe un tuffo al cuore. Non immaginava che la situazione fosse così complicata. Era più difficile di quanto immaginasse. «Il dottore ha detto che sono in coma da un mese. Sei.» si interruppe. «Dio questa fottuta testa mi fa un male cane.» portò le braccia in alto e, chiudendo i pugni, li poggiò sulla fronte, premendo forte, come se questo servisse ad alleviare il dolore. «Io non ti conosco!» aggiunse poi.
    Simone ebbe un blocco. Singhiozzò leggermente. Si portò una mano davanti la bocca e si voltò dall’altra parte. Faceva davvero troppo male vedere il figlio in quelle condizioni.

    Jorg restò in disparte. Non poteva farsi vedere. Si avvicinò a Bill accarezzandogli dolcemente la testa. Si chinò in avanti per potergli baciare la fronte. ‘Perdonaci’ sussurrò.

    «Signora. Sa per caso del ragazzo che era assieme a me in macchina il giorno dell’incidente? Quel coglione del dottore non mi ha detto nulla. Lo odio. E poi puzza di vecchio.» Simone si lasciò sfuggire una risata. Si inumidì le labbra. Posò i suoi occhi su Jorg, lui li socchiuse ed annuì. Doveva farlo. Sangue freddo.

    «Devi chiamarmi ‘mamma’, Tom. Sono tua madre. Hai perso la memoria, figlio mio.» si sedette sul lettino, accanto a lui. Gli accarezzò delicatamente la fronte. «. E comunque.» sospirò. Non ci riusciva.

    «Cosa? Lei. Tu. Conosci il ragazzo che era con me?»

    Simone continuava a fissare Jorg. Nei suoi occhi cercava una risposta, anche se già la conosceva. Doveva farsi coraggio e dirglielo. Non era poi così difficile mentire spudoratamente solo per puro egoismo. Era così semplice dire: ‘non c’è mai stato nessuno lì con te. Avrai i ricordi confusi’, quando proprio lì, accanto a lui, stava la persona per cui aveva rischiato la vita; la persona per cui sarebbe morto; la persona che amava più di qualsiasi altra cosa al mondo. Non riuscivano a capire l’errore madornale che stavano per compiere in quel dato momento, cosa avrebbe potuto provocare se, un giorno, Tom o Bill fossero venuti a conoscenza dell’inganno. Si domandarono come avrebbero potuto reagire? No. L’egoismo era troppo forte. Così come l’orgoglio. Per loro, quella era la scelta giusta per i ragazzi. Non volevano ammettere a se stessi che quella scelta, non era giusta per i figli. Ma era giusta per loro.

    Ritornò a guardare Tom, con un sorriso dolce, falso. Stava per mentire. «No, tesoro. Ti sbagli. Non c’era nessuno assieme a te. Avrai ancora i ricordi confusi.» continuò ad accarezzargli la fronte.

    «No. Ti sbagli. C’era qualcuno. Davvero. Me lo ricordo.» disse flebilmente. Gli antidolorifici stavano esaurendo il loro effetto. «Io.» continuò a guardarsi intorno. Fino a quando non posò gli occhi su Bill. Simone perse un battito. Se lo riconosce. È la fine. Guardò di nuovo sua madre. «Anche quel ragazzo ha avuto un incidente? Chi è?»

    Simone egoisticamente tirò un sospiro di sollievo. Sorrise ancora una volta, stringendo la mano di Tom più forte. «Non lo so, Tom. Non lo conosco. Quell’uomo che è entrato con me, presumo sia suo padre. Ma non conosco nessuno dei due. L’avrai solo immaginato, tesoro mio. Solo immaginato.» Tom spostò lo sguardo verso i due sconosciuti poi lo rivolse di nuovo verso la madre. Sorrise.

    «Molto probabilmente avrò i ricordi confusi. Chi può saperlo meglio di te. Mamma!» Tom sorrise e strinse di più la mano di Simone. La donna ricambiò, sovrapponendo anche l’altra.

    «Ti prometto che farò riaffiorare tutti i tuoi ricordi più belli. Te lo garantisco, Tom.»

    «Quando potrò uscire? »

    «Questo al dottore ‘puzzolente’ non l’ho ancora chiesto.» ad entrambi scappò una risata. «Ma sono sicura che ti rimetteranno presto. Abbiamo un sacco di cui parlare. »

    Tom sorrise, ed annuì. Non diede più importanza a quei due che erano nella stanza assieme a lui. Era tutto normale. Lui avrebbe riacquistato la memoria grazie alle fandonie che la madre gli avrebbe raccontato giorno dopo giorno, infangando il prezioso ricordo del fratello, l’indimenticabile ricordo. Di un amore perduto.

    --- Note finali: ecco qui il prologo (: Spero tanto che vi abbia colpito un pochetto!! Il prossimo capito sarà il 17 oppure domenica prossima!! Dipende da voi (: ahaha un bacio e a presto! Vale.

    Link Capitoli
    Prologo: X
    Capitolo I: X


    Edited by Bill Kaulitz - 17/7/2013, 15:29
  10. .
    l'avevo trovata anche sul TH & twincest... molto carina *-*
  11. .
    molto carina c:
  12. .
    ahahah l'ho rilettaaaaa
  13. .
    https://tokiohotel.forumfree.it/?t=60007428 vorrei cancellare questa c:
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    oddio ç_ç è bellissima
  15. .
    https://tokiohotel.forumfree.it/?t=60007428 questa è da spostare! (: grazie mille.. la sto riscrivendo da capo a piedi.
49 replies since 18/9/2011
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